Campagna marchigiana

Arcobaleno nel Nostro giardino

La pasquella tipico canto di questua delle campagne marchigiane in occasione dell’Epifania

L’anno novo è già vvenuto
già che Dio ce l’ha mandato
ce l’ha mandato co’ ‘n’allegria
bon anno novo e Ppifania

Fade presto e non tardate
che dal ciel’ cadé lla brina
fa veni’ la tremarella
bon anno novo e bbonà Pasquella

Noi pregamo sant’Antonio
che vve guarda tuttò ‘l bestiame
dalla peste e dalla fame
da qualunque maladia
bon anno novo e Ppifania

E quel fiume de’ Giordano
dove l’acqua diventa vino
pe’ llavà’ Gesù Bambino
pe’ llavaje la faccia bella
bon anno novo e bbonà Pasquella

La capoccia giù ppe’ lle scale
qualche cosa ce vorrà dare
senza gnende ‘n ce manda via
bon anno novo e Ppifania

Se cce dade ‘na pollastrella
nun ce ‘mporta se piccolella
bastà che rrempa la padella
bon anno novo e bbonà Pasquella

Se cce dade ‘na pacca de porco
nun ce ‘mporta se cce stà ‘l pelo
je daremo ‘na raschiadella
bon anno novo e bbonà Pasquella

Ce venimo da chi d’intorno
non piade ‘l palò del forno
semo venudi pe’ l’allegria
se noon volede andamo via

da “El Sol” di Franco Scataglini (Ancona, 1930 – Numana, 1994)

La via de la Gabella,
dal dorso bianco antigo,
atraversava snella
i campi come un rigo

sopra al verde. Stacati,
tut’intorno, paesi
(come se acoccolati
piccioni al nido apresi)

in cima ai poggi a vigna
e le chiese più in alto
culor d’oro che scrigna.
Un silenzioso assalto

de nuvole e fantasmi
rispechiava e deserti
soto una volta a chiasmi
de cieli chiusi e operti

con el vocià dei cani,
irosi, recidivi,
‘ntra i spari dei pantani
e i galletti tardivi.

Filari maritati, testimonianza dell’agricoltura marchigiana

Campagna marchigiana di Libero Bigiaretti (Matelica, 1905 – Roma, 1993)

Più da te m’allontano e ai tuoi orizzonti
di libertà più non respiro, data
ormai la mia vita ai brevi spazi,
più non fa nido nel cuore il tuo ricordo
campagna marchigiana…
Ancora vi dipingo nei miei occhi
belle luci di cieli serenati
di massiccio turchino ondosi monti,
seminati distesi nel tranquillo
ordine del disegno. La tua voce,
pace della mia terra, lungamente
in me dura se ancora mi rammento
amoroso richiamo della tortora
tra i quercioli del poggio; nel lunare
silenzio, amico abbaiare del cane:
calmi muggiti dalle greppie, stridulo
gemere della secchia al fresco pozzo.
Mai la città mi renderà straniero
al mio paese, ai queti campi dove
alla lenta parola onde il cortese
villano mi proverbia il mio linguaggio
rinasce alla cadenza ch’è fedele
al labbro di mio padre; ove riscopro
dimenticati, i miei vivi, i miei morti.

Tullio Pericoli, (Colli del Tronto, 1936)

Le Marche da Viaggio in Italia di Guido Piovene, Bompiani, 1957

E la collina marchigiana, volgendosi verso l’interno, è quasi un grande e naturale giardino all’italiana. Non è la collina toscana, né quella umbra, né la veneta. È dolce, serena, patetica, lucida, priva di punte. Passando tra i coltivi delle valli ubertose nelle belle giornate si vedono tutte le piante luccicare all’unisono come se le foglie fossero patinate di cera; e vi si trapela un fondo di terracotta chiara, che la sera si fa rossastro, e si rivela specialmente splendendo con l’ombra e la luce di luna. I colli sono tondeggianti, con pendici prative lunghe, lente, disseminate ad intervalli di lunghi alberi solitari; quasi preparate a ricevere le mandrie bianche e i pleniluni. È il prototipo del paesaggio idillico e pastorale.

Qui abbiamo l’esempio più integro di quel paesaggio medio, dolce, senza mollezza, equilibrato, moderato, quasi che l’uomo stesso ne avesse fornito il disegno. Non esiste terra meno gotica, o meno barocca. La stessa fecondità della terra, la varietà dei coltivi e degli alberi (querce, olmi, platani, gelsi, pioppi, olivi) sembrano essere usate ad uno scopo ornamentale. È abitudine dei viaggiatori stranieri, cercando quale delle nostre regioni dia il senso peculiare del nostro paese, indicare la Toscana e l’Umbria. Credo che questo accada perché di solito le Marche sono fuori dei loro itinerari. Questa regione infatti non è conosciuta ai più per visione diretta in proporzione alla sua grande bellezza naturale e artistica.

Dedita all’agricoltura, questa regione è in prevalenza una vasta repubblica di campagnuoli, mezzadri e piccoli proprietari, rivolti a problemi pratici, gelosi del proprio riserbo.

Da qualunque angolo ci si accosti alle Marche, si ritorna all’agricoltura, in cui i marchigiani eccellono, portandovi la loro speciale qualità d’ingegno, delicata, minuta, artigianale, e direi giornaliera. Questa agricoltura in costante progresso, sapiente, gentile, trova la sua espressione nelle tenute modello di ampiezza media. Fa parte, come ho detto, della natura in senso classico.

Panorama dalla casa di Tonino Guerra a Pennabilli (ora in provincia di Rimini)

Casa di Monlione di Paolo Volponi
(da ‘Le porte dell’Appennino’, 1960)

Bene che sia caduta
dal platano la foglia più alta,
che ricoprano il fiume
tenerissime nebbie
e la macchiola resti
greve di pioggia;
o che una fila di quaglie
ricerchino mute
il margine ombroso del bosco,
fuori della rovente stoppia
dove giace la serpe falciata;
sempre io amo queste colline
della terra di mia madre.
Casa di Monlione,
per prima ti vedo
sul fianco della collina
sotto l’albero di noce.
Incontro gli uomini
che portano giacche di velluto
odorose di polvere da sparo e di tabacco.
Il puledro visto nascere
scavalca la siepe della strada;
sul pozzo fiorisce il rosaio
delle rose nuziali.
La goccia di sangue
nel becco del fringuello
raggela al davanzale.

Tramonto nel Nostro giardino

L’antico addio di Luigi Bartolini (Cupramontana, 8 febbraio 1892 – Roma, 16 maggio 1963)

Tanti saluti,
terra marchigiana:
quella che mi piaceva
era una fonte di campagna,
il fiume Chienti era,
era il Potenza;
tempo, ormai, per me, di penitenza!
Non più aggirarmi per le Abbadie
come un monaco disperso;
non più salire ai vecchi castelli,
e mirar sotto i colli nanerelli;
non più, sul Chienti, molini ad acqua
e il contadino per l’erta strada;
non più lanciargli, per spasso,
colpendo l’asino un sasso…
Non più le ragazze scalze
che fanno l’erba del fosso;
non più: e al fiorente petto
un tulipano rosso.

Urbino, Piazza del mercatale (1910 circa)

Le trasformazioni dell’agricoltura nelle Marche di Franco Sotte

La trasformazione epocale che ha vissuto l’agricoltura delle Marche negli ultimi Settant’anni è profondamente caratterizzata dalla dissoluzione della conduzione mezzadrile, che nei secoli precedenti aveva contrassegnato e permeato di sé la storia, l’economia, la società e l’assetto del territorio della regione. I dati censuari lo dimostrano con evidenza. In figura 1 è rappresentata l’evoluzione dell’agricoltura marchigiana in termini di tipologie aziendali. Il censimento del 1960, realizzato in un anno in cui la contrazione mezzadrile era già iniziata, rileva ancora ben 59.620 aziende mezzadrili (pari al 50,4% del totale) con una superficie complessiva di 532,1 mila ettari (59,1%).
Nel corso dei successivi tre decenni si compie un esodo biblico. Scompaiono oltre 57mila aziende condotte in tal modo, rimpiazzate, come si vede nel grafico, da circa 20mila aziende a conduzione diretta e da un mezzo migliaio di aziende a conduzione con salariati e compartecipanti. Dopo il 1980 spariscono anche le residue aziende a mezzadria. Il censimento 2000 ne conta soltanto 147, tanto che nel censimento 2010 la classe specifica viene inglobata nell’aggregato: “altre aziende”.
Dopo gli anni Novanta si assiste al fenomeno della contrazione anche delle aziende a conduzione sia diretta che con salariati e compartecipanti. Un fenomeno che si collega all’esplosione delle occasioni di impiego nei distretti manifatturieri, avvenuta nei decenni precedenti. L’effetto attrazione esercitato sui giovani delle famiglie agricole ha collocato le Marche ai vertici dell’invecchiamento dell’agricoltura nazionale. Questo fenomeno, unito all’abbandono di una notevole quantità di superficie agricola – si passa dai 900mila ettari del 1960 a 616mila del 2010 (-32%) – e alla scomparsa di molte piccole aziende, ha determinato la contrazione del loro numero complessivo da 118.301 del 1960 alle 44.508 del 2010. Una diminuzione del 62% che peraltro sottostima il fenomeno, perché non tiene conto del contemporaneo straordinario ricorso al contoterzismo, al quale è affidata in molti casi l’intera gestione (con forme che spesso si celano nelle rilevazioni ufficiali).

Figura 1 – Le forme di conduzione nell’agricoltura delle Marche (migliaia di aziende)

L’abbandono della mezzadria segna la fine di un contratto agrario diventato anacronistico sia per il rapporto di sfruttamento del lavoro che è ad esso implicito (che coinvolge l’intera famiglia mezzadrile), sia anche per l’inerzia che presuppone sul piano del rinnovamento strutturale delle imprese a fronte delle nuove opportunità tecnologiche e relative all’apertura dei mercati. Anziché investire come sarebbe necessario e conveniente se il risultato aziendale non fosse da dividere con il mezzadro, il proprietario è stimolato a adottare ordinamenti produttivi a bassa intensità di capitale e alta intensità di lavoro.
Questo spiega, come si può osservare nella figura 2, la permanenza fino agli anni Sessanta di una consistentissima zootecnia bovina da lavoro e carne (prevalentemente di razza marchigiana) e il suo conseguente crollo negli anni successivi, in parallelo alla dissoluzione mezzadrile. I capi sono infatti diminuiti in cinquant’anni dell’89,7%, mentre il numero di aziende con bovini si è ridotto addirittura del 95,5%.

Figura 2 – La zootecnica bovina nelle Marche (migliaia di capi)

L’abbandono della connessione tra zootecnia e coltivazione ha avuto profonde ripercussioni sull’uso e la tenuta dei suoli. In pochi decenni, nella regione si è ridotta notevolmente la superficie agricola e si è operata una consistente semplificazione degli ordinamenti colturali. Tradizionalmente questi erano basati sulla rotazione tra cereali e colture industriali, da un lato, e erbai di leguminose (specie medica), dall’altro. Una semplificazione che ha prodotto pesanti effetti sia sulla fertilità, che sulla solidità dei versanti (l’Ispra ha censito nella regione Marche 42.522 fenomeni franosi nel 2006) (Principi et al., 2007).
In figura 3 è evidenziato come la contrazione della superficie dedicata alle colture foraggere sia stata più consistente di quella di tutte le altre variabili riprodotte passando, in proporzione alla superficie a cereali, dal 95% del 1960 al minimo del 37,9% del 2000. Il rapporto è risalito al 51,6% nel 2010 ma, come è noto, questo non si collega ad un recupero della pratica della rotazione, quanto piuttosto allo sviluppo delle monocolture di erbai (specie nella provincia di Pesaro-Urbino) per l’essiccazione sostenuta dai contributi pubblici.

Figura 3 – Utilizzo dei terreni nelle Marche (migliaia di ettari)

In corrispondenza a quanto fin qui illustrato, l’occupazione agricola (figura 4) ha subito un deciso ridimensionamento, passando dai 385.867 addetti del censimento della popolazione del 1951 ai 15.870 del 2018 (-95,9%) seguendo una dinamica tra il 1951 e il 1981 ben più accentuata che nella media nazionale. Successivamente, il decremento dell’occupazione agricola regionale, si è mosso in sintonia a quello nazionale. La regione Marche comunque da quattro decenni presenta una occupazione agricola percentualmente inferiore a quella italiana in complesso.

Figura 4 – L’occupazione agricola sul totale dell’occupazione nelle Marche (percentuale)

Questo paragrafo è tratto da: Coderoni S., Esposti R., Sotte F. (2020), La politica agricola e di sviluppo rurale della Regione Marche, in Amatori F., Giulianelli R., Martellini A. (a cura) (2020), Le Marche 1970-2020. La Regione e il territorio, Franco Angeli, Milano.

Campagna marchigiana tra Monte San Vito e Monsano