La raccolta delle erbe

Sonchus oleraceus, volgarmente grespino, grespigno, crespino, ecc.

Sull’erba di Arturo Graf (Atene, 1848 – Torino, 1913)

L’erba è una buona cosa
Per l’insetto e pel branco,
E ancor per l’uomo stanco,
Per l’uom che si riposa.

Mentr’ei siede sull’erba,
Fuor dell’usata gabbia,
Ogni rancor ch’egli abbia
Si smorza e disacerba.

Mentre supino giace
Sui flessuosi steli,
Vede nell’alto i cieli
E può sognare in pace.

Si rizza a lui dattorno
Qualche succinto fiore:
Vive il fior poche ore;
Vive l’uom qualche giorno.

Una minuta plebe
Ivi presso fatica:
Come l’uom la formica
Si struscia per le glebe.

Adagio un grillo miete;
Vïaggia nel rigagno
Una chiocciola; il ragno
Distende la sua rete.

Tra’ fuscelli si spalla
Una lumaca inerme;
Ronza un moscone; il verme
Disprezza la farfalla.

E l’uom che si riposa
Sente d’esser fratello
Del verme e del fuscello
E d’ogni nata cosa.

Mentr’ei giace sull’erba
Nauseato, sfinito,
Gli passa ogni prurito
Ed ogn’idea superba.

Mentr’ei stassi a giacere,
Vede fuggir per l’aria
L’illusïone varia
Dalle nubi leggiere.

Mentr’ei giace supino,
Vede assai lunge il cielo;
Sente, fra stelo e stelo,
La terra assai vicino.

(Da “Le rime della selva”, Treves, Milano 1906)

Camille Pissarro, Contadina che raccoglie l’erba, 1881

Erba di Giulio Gianelli (Torino, 1879 – Roma, 1914)

Precorritrice dell’arborea vita
nascesti a specchio delle prime fonti,
erba che regni piani colli e monti
e ti compiaci della margherita;

da millenni ripalpiti fiorita
in ogni zona; sfumi agli orizzonti,
se nell’onda t’immergi e poi sormonti
a rivedere il sol, rinvigorita:

abbondi all’uomo come l’acqua e l’aria,
gli nutri il gregge, l’accompagni, santa,
fino alla tomba se ramingo egli erra;

sul tuo verde perenne il cielo svaria
e nello spazio ad altri mondi canta
l’eterna giovinezza della terra.

(Dalla rivista «Riviera Ligure», gennaio 1913)

UniSaperi Fano, corso sulle erbe commestibili

Erba di Carl Sandburg (Galesburg Illinois, 1878 – Flat Rock Michigan, 1967)

Accatastate i corpi ad Austerlitz e a Waterloo.
Buttateli a terra e lasciatemi lavorare.
Io sono l’erba; io copro tutto.

E ammassateli in alto a Gettysburg
E ammassateli in alto a Ypres e Verdun.
Sotterrateli e lasciatemi lavorare.
Due anni, dieci anni, e i passeggeri chiedono al guidatore:
Che posto è questo?
Dove siamo ora?

Io sono l’erba.
Lasciatemi lavorare.

Grass by Carl Sandburg (Galesburg Illinois, 1878 – Flat Rock Michigan, 1967)

Pile the bodies high at Austerlitz and Waterloo.
Shovel them under and let me work—
I am the grass; I cover all.

And pile them high at Gettysburg
And pile them high at Ypres and Verdun.
Shovel them under and let me work.
Two years, ten years, and passengers ask the conductor:
What place is this?
Where are we now?

I am the grass.
Let me work.

Edouard Manet – Déjouner sur l’herbe, 1863

L’orto di Renzo da I promessi sposi di Alessandro Manzoni (Milano, 1785 – Milano, 1873)

Era una marmaglia d’ortiche, di felci, di logli, di gramigne, di farinelli, d’avene salvatiche, d’amaranti verdi, di radicchielle, d’acetoselle, di panicastrelle e d’altrettali piante; di quelle, voglio dire, di cui il contadino d’ogni paese ha fatto una gran classe a modo suo, denominandole erbacce, o qualcosa di simile. Era un guazzabuglio di steli, che facevano a soverchiarsi l’uno con l’altro nell’aria, o a passarsi avanti, strisciando sul terreno, a rubarsi in somma il posto per ogni verso; una confusione di foglie, di fiori, di frutti, di cento colori, di cento forme, di cento grandezze: spighette, pannocchiette, ciocche, mazzetti, capolini bianchi, rossi, gialli, azzurri. Tra questa marmaglia di piante ce n’era alcune di più rilevate e vistose, non però migliori, almeno la più parte: l’uva turca, più alta di tutte, co’ suoi rami allargati, rosseggianti, co’ suoi pomposi foglioni verdecupi, alcuni già orlati di porpora, co’ suoi grappoli ripiegati, guarniti di bacche paonazze al basso, più su di porporine, poi di verdi, e in cima di fiorellini biancastri; il tasso barbasso, con le sue gran foglie lanose a terra, e lo stelo diritto all’aria, e le lunghe spighe sparse e come stellate di vivi fiori gialli: cardi, ispidi ne’ rami, nelle foglie, ne’ calici, donde uscivano ciuffetti di fiori bianchi o porporini, ovvero si staccavano, portati via dal vento, pennacchioli argentei e leggieri. Qui una quantità di vilucchioni arrampicati e avvoltati a’ nuovi rampolli d’un gelso, gli avevan tutti ricoperti delle lor foglie ciondoloni, e spenzolavano dalla cima di quelli le lor campanelle candide e molli: là una zucca salvatica, co’ suoi chicchi vermigli, s’era avviticchiata ai nuovi tralci d’una vite; la quale, cercato invano un più saldo sostegno, aveva attaccati a vicenda i suoi viticci a quella; e, mescolando i loro deboli steli e le loro foglie poco diverse, si tiravan giù, pure a vicenda, come accade spesso ai deboli che si prendon l’uno con l’altro per appoggio. Il rovo era per tutto; andava da una pianta all’altra, saliva, scendeva, ripiegava i rami o gli stendeva, secondo gli riuscisse; e, attraversato davanti al limitare stesso, pareva che fosse lì per contrastare il passo, anche al padrone.

Silene vulgaris, detta volgarmente Striti, Strigoli, Stridoli, Bubbolini, ecc.

O di erbette novelle di Marco Antonio Lavaiani (Elagildo Leuconio) poeta dell’Arcadia (1716-1781)

O di erbette novelle, e vaghi fiori,
Rida la Terra allo ʃpuntar d’Aprile,
O ʃi rivesʃta variando ʃtile
Di fredde nevi, e d’agghiacciati umori.

O favorevol ʃorte a grandi onori
Sollevar tenti la mia vita umìle,
O faticando in parte oʃcura, e vile
Viver mi forzi ʃol de’ miei ʃudori.

O ʃia l’aria purgata, e’l Ciel ʃereno,
O le nubi, che ‘l vento atro raccoglie,
Fenda, od allumi folgore, o baleno,

Non fia giammai, che delle prime voglie,
Onde dolce mi acceʃe Amore il ʃeno,
Negli anni miei più verde io mi diʃpoglie.

John Singer Sargent, Due ragazze sdraiate sull’erba, 1889

Concedetevi una vacanza di Franco Arminio (Bisaccia, 1960)

Concedetevi una vacanza
intorno a un filo d’erba,
concedetevi al silenzio e alla luce,
con la muta lussuria di una rosa.
(da L’entroterra degli occhi)

Cichorium intybus, volgarmente cicoria

Coricato sull’erba di Hermann Hesse (Calw- Württemberg, 1877 – Montagnola-Lugano, 1962)

Girandole di fiori e colorato
vello dei chiari prati estivi,
tenero azzurro del disteso cielo
e sussurro dell’api:
tutto questo non è dunque che il sogno
angoscioso d’un dio,
il grido di una forza bruta
che a liberarsi intende?
La bella curva del monte, che posa
laggiù sopra l’azzurro,
non è dunque che l’urgere selvaggio
d’una natura levitante; solo
il moto d’un costretto affanno,
un brancolare cieco e senza posa!
Oh, lasciami tu, sogno pauroso,
tu, dolore del mondo!
Nel fulgor della sera ti addormenta
una danza d’insetti,
un gridetto di uccello, e questo fiato
di vento che mi passa su la fronte
la sua fresca carezza.
Lasciami, antico dolore dell’uomo!
Forse ogni cosa è male, ombra, tormento;
ma non già questa dolce ora di sole,
non questo olezzo del rosso trifoglio,
non la felicità tenera e fonda
che nell’anima chiudo.

traduzione di Diego Valeri

Reichardia picroides, volgarmente caccialepre, grattalingua, ecc.

Im Grase liegend von Hermann Hesse (Calw- Württemberg, 1877 – Montagnola-Lugano, 1962)

Ist dies nun alles, Blumengaukelspiel
Und Farbenflaum der lichten Sommerwiese,
Zartblau gespannter Himmel, Bienensang,
Ist dies nun alles eines Gottes
Stöhnender Traum,
Schrei unbewusster Kräfte nach Erlösung?
Des Berges ferne Linie,
Die schön und kühn im Blauen ruht,
Ist denn auch sie nur Krampf,
Nur wilde Spannung gärender Natur
Nur Weh, nur Qual, nur sinnlos tastende,
Nie rastende, nie selige Bewegung?
Ach nein! Verlass mich du, unholder Traum
Vom Leid der Welt!
Dich wiegt ein Mückentanz im Abendglast,
Dich wiegt ein Vogelruf,
Ein Windhauch auf, der mir die Stirn
Mit Schmeicheln kühlt.
Verlass mich du, uraltes Menschenweh!
Mag alles Qual,
Mag alles Leid und Schatten sein –
Doch diese eine süße Sonnenstunde nicht,
Und nicht der Duft vom roten Klee,
Und nicht das tiefe, zarte Wohlgefühl
In meiner Seele.